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Assistenza sociale: differenze anche del 40% da un Comune all’altro

Pagare la retta di una casa di riposo o di un asilo nido a Milano non è la stessa cosa che farlo a Venezia, a Firenze, a Napoli. E questo vale per tutti i servizi previsti dall’assistenza sociale, da quelli per la disabilità a quelli per gli anziani o per i minori. Gli oltre 8.000 Comuni italiani, infatti, fanno pagare ai cittadini percentuali diverse e spesso inique pur offrendo lo stesso identico servizio. Questo accade perché non esiste in Italia uno standard in materia e le amministrazioni comunali hanno la possibilità di stabilire da sé il concorso alla spesa dei cittadini. Non essendo previsto, insomma, un ticket come quello sanitario, accade che da un comune all’altro ci siano variazioni per il contributo individuale ma anche per le prestazioni dal 10% fino anche al 40%. Si tratta di un problema che, nonostante le indagini dell’Istat e della Fondazione Zancan di Padova, tende a essere poco conosciuto e discusso. Per questo la Fondazione ha organizzato nella sede estiva di Malosco (Trento) un seminario nel quale si è cercato di studiare possibili soluzioni per eliminare la disuguaglianza tra i cittadini.

“Le fonti di finanziamento delle risposte di assistenza sociale sono molteplici – spiega il direttore della Fondazione, Tiziano Vecchiato -: lo Stato, con il Fondo sociale nazionale e la spesa per trasferimenti monetari di varia natura, le Regioni con il Fondo sociale regionale e altri centri di spesa, i Comuni e i cittadini. Questi ultimi concorrono al costo dei servizi anche per il 30%-40% della spesa complessiva”. Essendo il singolo Comune a scegliere la quota di partecipazione, il risultato è  di grande disomogeneità, mancanza di equità, differenze non giustificabili. “Mentre per i servizi di interesse generale, come energia, acqua o rifiuti il costo di accesso e fruizione è oggetto di monitoraggio istituzionale, lo stesso non avviene per i servizi alle persone – sottolinea Vecchiato -. La prospettiva federalista evidenzierà ancora di più queste differenze“.

Se è quasi impossibile al momento pensare di ridurre del tutto le disuguaglianze, l’obiettivo che si sono posti gli esperti chiamati dalla Fondazione è di riuscire a ottenere almeno un’equità orizzontale, permettendo cioè di far pagare la stessa cifra alle persone nelle stesse condizioni di reddito. E per fare questo bisogna promuovere un uso più diffuso degli indicatori economici quali l’Isee, che però dovrebbero essere rivisti e ampliati. Come spiega Cesare Dosi, preside della Facoltà di Economia dell’Università di Padova e componente del Cda della Fondazione Zancan, “un problema con questi indicatori è che si riferiscono all’anno precedente rispetto a quello della rilevazione e quindi rischiano di non rendere conto efficacemente della situazione attuale dei cittadini, soprattutto in questi tempi di crisi in cui molto può cambiare per una persona da un mese all’altro. Inoltre l’Isee coglie solo alcune dimensioni della capacità contributiva e rischia di non essere sufficiente”.  

Per limitare il peso economico che la contribuzione all’assistenza ha sulle famiglie, un’ipotesi innovativa potrebbe essere quella di tenere conto oltre che del reddito, anche della partecipazione attiva della famiglia in termini di assistenza diretta: “Sarebbe importante iniziare a valutare non solo gli aspetti prettamente economici – spiega infatti Dosi -, ma anche considerare il tipo di aiuto e sostegno su cui il singolo può contare. In altre parole, se il nucleo familiare partecipa attivamente all’assistenza apportando di fatto un beneficio al servizio si potrebbe pensare di attenuare la contribuzione come una sorta di indennizzo”.