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“Sostenere chi sostiene” per prevenire il logorio di chi lavora nel sociale

Assistenza agli anziani, sostegno alle famiglie, lavoro con i disabili, prevenzione del disagio: sono tutti settori centrali dell’ambito sociosanitario, categorie d’intervento che, nella realtà, si traducono nel lavoro quotidiano di migliaia di professionisti in tutta Italia. Sono persone, lavoratori, che si scontrano con situazioni difficili, a volte logoranti non solo sul piano professionale ma anche, spesso, su quello personale. L’incontro con tutta una gamma di problemi che affliggono la società infatti può avere, e spesso ha, un forte impatto sulla persona che per prima è chiamata a dare risposte. Elisabetta Neve, docente di Servizio sociale all’Università di Padova e Verona e collaboratrice della Fondazione “E. Zancan”, sottolinea l’importanza di “sostenere chi sostiene” per evitare che la persona venga sopraffatta dal contatto prolungato con il disagio.  
Lei ritiene che quando si parla dei servizi sociosanitari non si deve dimenticare che si parla soprattutto di persone…
“È vero. Non va dimenticato che la prima vera risorsa del sistema di servizi è rappresentata da tutti i professionisti che vi operano. Tuttavia questa risorsa, essendo costituita dal fattore umano, ha a sua volta bisogno non solo di un’iniziale formazione, ma anche di una continua “manutenzione” e di un costante supporto per poter affrontare l’aumento della gamma di problemi e gestire i cambiamenti che avvengono, con grande velocità, nella società”.
Anche le persone, quindi, hanno bisogno di “manutenzione”?
“Sì, questo è un termine molto usato nel settore, perché rende l’idea che i professionisti, che sono i primi soggetti di risposta ai problemi sociali e sanitari delle persone, sono a loro volta persone in carne e ossa, che hanno bisogno di essere sostenute, tante volte addirittura riconosciute e valorizzate, ma anche accompagnate in certi momenti della loro vita professionale.
Per questo è necessario operare su tre fronti: il primo è quello dell’aggiornamento costante per far fronte a una multiproblematicità sempre più diffusa, il secondo è il perfezionamento delle capacità tecniche, per garantire l’efficacia degli interventi, potendo contare spesso su risorse limitate. Infine si deve lavorare per gestire il coinvolgimento emotivo dell’operatore con le situazioni che deve gestire”.
Dunque è questo coinvolgimento che può portare al logorio?
“Sì. Talvolta si traduce in termini di stress e comunque è sempre in gioco in un lavoro tipicamente relazionale. L’Università di Verona sta concludendo una ricerca sugli assistenti sociali e la percezione della loro professionalità, nella quale si evidenzia che il fattore emotivo può essere positivo, perché in grado di migliorare l’esito della prestazione, ma può portare anche al logoramento e a una sorta di auto-disistima. Ci sono esempi di persone cadute nel cosiddetto “burn out”, cioè che si sono “bruciate”. Questo può portare addirittura a patologie e comunque comporta un forte rischio di inefficacia per i destinatari degli interventi”.
Come si può intervenire per fronteggiarlo?
“Principalmente attraverso la “formazione continua”, che da un anno è obbligatoria anche per gli assistenti sociali, nella quale si tenga in considerazione la persona nella sua totalità, dalla dimensione tecnico-professionale fino a quella personale, con un rafforzamento dell’aspetto tecnico ma anche etico. Ci sono vari gradi di formazione permanente: dall’approfondimento individuale alla frequentazione di corsi e seminari  fino alla supervisione, che è un tipo di formazione molto più ravvicinata, personalizzata e basata sull’esperienza quotidiana dei professionisti”.

Fonte: Redattore Sociale