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Bimbi disabili 0-6 anni: gli esperti “in Italia mancano servizi formali”

La comunicazione della diagnosi e il confronto con la disabilità grave riscontrata a un bimbo alla nascita e nella prima infanzia è una questione estremamente delicata, ma troppo spesso non considerata con attenzione e cautela. La mancanza di informazioni, l’incontro con la disabilità e la gestione dei problemi avvengono in una condizione di solitudine e sofferenza per i genitori. Se la scuola, infatti, diventa un punto di riferimento importante dopo i 6 anni di vita del bambino, prima di raggiungere questa età le famiglie sono sostanzialmente sole. Proprio questo è stato uno dei temi affrontati nel corso del seminario Famiglie e bambini con disabilità “grave” svoltosi nei giorni scorsi a Malosco (Tn), sede estiva della Fondazione “E. Zancan” onlus in collaborazione con la Fondazione Paideia di Torino.

Punto di partenza del dibattito è stata la messa al bando dell’aggettivo “grave” attribuito alla disabilità, cui è preferito l’aggettivo “complessa”. Il motivo è presto spiegato da Roberta Caldin, docente di Pedagogia presso le Università di Padova e Bologna e collaboratrice della Fondazione Zancan: “Il termine ‘grave’ stigmatizza la condizione del bambino e non tiene conto dei vari indicatori della complessità, che invece è fondamentale analizzare e tenere in considerazione. Deve essere abbandonata l’idea di una condizione statica e definitiva della disabilità, fin dai primi momenti, anche per le potenzialità che spesso i bambini hanno”. Di particolare interesse è stato anche il dibattito relativo alle modalità e alle tempistiche della comunicazione della diagnosi ai genitori: “La comunicazione e l’informazione sulle condizioni del bambino non è un atto che finisce con l’uscita della famiglia dall’ospedale – spiega Caldin – ma è un processo di aiuto continuo, di cui deve essere reso partecipe per quanto possibile anche il bambino”.

Ricca di spunti e riflessioni, inoltre, è stata la parte del seminario dedicata alla questione del sostegno alle famiglie che, come si è detto, nei primi anni sono e si sentono abbandonate. “Innanzitutto dovrebbero essere individuati dei caregiver esterni alla famiglia – sottolinea Caldin – perché non può essere sempre la madre, il padre o il fratello a prendersi cura del bambino. Un’esperienza di ‘esternalizzazione’ in questo senso si sta svolgendo nella città di Torino”. Dal seminario è dunque emersa la necessità di predisporre dei servizi integrati, pensando anche a ipotesi di domiciliazione delle cure.

E sulla carenza dei servizi alla prima infanzia insiste anche Fabrizio Serra, segretario generale della Fondazione Paideia: “I servizi formali alla disabilità iniziano con l’inserimento scolastico, mentre prima non c’è alcuna figura di riferimento. Esiste, questo sì, un’offerta informale di prossimità, ma ad oggi non sono presenti dei servizi che sappiano valorizzare e mettere in rete le risorse spontanee operative nei territori”. In questo contesto è dunque importante valorizzare maggiormente anche le competenze dei genitori, che spesso si riuniscono in associazioni più o meno strutturate e in gruppi di auto-aiuto. “Servirebbe una regia per evitare l’eccessiva frammentazione delle risposte – conclude Serra – che sono specializzate ma anche a causa di questo frammentate e non riescono a essere un aiuto vero e continuativo. Bisogna ora capire chi può farsi carico responsabilmente in futuro del problema e come”.

A questo tema sarà dedicato un documento che verrà diffuso in autunno.