La crisi, con le sue pesanti ricadute sociali, obbliga a un ripensamento e a un salto di qualità nella lotta alla povertà, in un sistema di welfare che deve diventare capace di rigenerare le proprie risorse, non solo economiche ma anche e soprattutto umane. Di questo si è discusso nel corso del convegno «Welfare generativo, solidarietà e corrispettività nell’esercizio dei diritti sociali», organizzato dall’Istituto Dirpolis – Scuola Superiore Sant’Anna e dalla Fondazione Emanuela Zancan (Pisa, 12 marzo). È stata l’occasione per ribadire l’idea di «welfare generativo», già contenuta nel Rapporto 2012 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia della Fondazione Zancan, edito dal Mulino. Un welfare generativo è capace di responsabilizzare e responsabilizzarsi, sulla base di un diverso incontro tra diritti e doveri, passando dalla logica del costo a quella dell’investimento e privilegiando l’efficacia e non la semplice assistenza.
La lotta alla povertà in Italia ancora oggi è troppo concentrata sull’erogazione di trasferimenti economici alle persone in difficoltà, senza che vengano attivati servizi di accompagnamento verso l’uscita dalla condizione di bisogno. In Europa, dove avviene il contrario si riesce ad abbattere di un terzo le disuguaglianze, a ridurre dell’80% il rischio di povertà assoluta e del 40% il rischio di povertà relativa. Dati molto lontani da quelli italiani, dove l’impatto redistributivo dei servizi era quasi un quarto nel 2000 (-24,1 per cento di riduzione della disuguaglianza) ed è stato meno di un quinto (-18,4 per cento) nel 2007.
«Noi ci siamo chiesti cosa succederebbe se una parte dei trasferimenti fossero gestiti in modo generativo, responsabilizzando, rigenerando le risorse, facendole rendere senza consumarle – spiega il direttore della Fondazione Zancan, Tiziano Vecchiato -. È una nuova logica che dice alle persone: ‘non posso aiutarti senza di te’ e che chiede loro un coinvolgimento attivo». Vecchiato lo spiega con un esempio: «Cosa succederebbe se la cassa integrazione alimentasse lavoro gestito a fini sociali, senza mantenere le persone in condizione passiva? Un lavoro temporaneo gestito e remunerato garantirebbe socialità, uscita dalla solitudine, dignità, apprendimento e sviluppo di nuove capacità, rendimento economico, utilizzo dei proventi per fini di solidarietà, incremento del capitale sociale di tutti. Il problema è passare da costo a investimento, uscendo dalla logica assistenzialistica che prevede una posizione passiva della persona aiutata».
Nel seminario di Pisa sono state approfondite le potenzialità giuridiche, insieme con i professori di diritto costituzionale Rossi e Colapietro, con Giuliano Amato e altri esperti. L’obiettivo era di capire come le proposte contenute nel rapporto possono prefigurare un salto di paradigma nel modo stesso di intendere il nostro welfare se da costo diventasse investimento capace di rigenerare e potenziare il rendimento delle risorse a disposizione. «L’evento è servito ad approfondire le potenzialità giuridiche legate alla possibilità, sul piano costituzionale, di prevedere uno scambio rispetto alla prestazione che una persona riceve dallo stato sociale. Tale prestazione è resa in quanto il soggetto è titolare di un diritto, senza presupporre alcuno scambio». Spiega Emanuele Rossi, direttore dell’Istituto Dirpolis – Scuola Superiore Sant’Anna, che propone un esempio: «Se una persona ha diritto alla pensione, la riceve senza che le venga chiesto niente in cambio. L’idea è di integrare questo schema ‘diritto del soggetto/obbligo dello stato’ con un terzo aspetto, cioè il ‘fare qualcosa a vantaggio della comunità’, che non sia propriamente uno ‘scambio’, ma un’azione a favore della collettività». Rossi precisa che «giuridicamente questo è un elemento da studiare, nuovo, che va collegato ad alcuni principi fondamentali della Costituzione, come quello di solidarietà. Bisogna, infine, capire gli ambiti in cui questo schema si può applicare, rispetto a quali prestazioni dello stato sociale può funzionare».